Terra nera di Giuse Alemanno

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Writer54
00giovedì 23 marzo 2006 02:38
Questo libro dello scrittore Giuse Alemanno di Manduria, cittadina in provincia di Taranto, mi ha provocato reazioni singolari. Alla fine della lettura mi sono sentito fortemente infastidito e non ne comprendevo appieno i motivi. L’ho letto in quattro ore, dalle undici di sera alle tre del mattino, seguendo la storia che si dipana negli anni ’50 nelle campagne pugliesi, con un’avidità ostile che non riuscivo a spiegarmi.

Ogni tanto tornavo a guardare la copertina, con l’immagine di un’anziana vestita di nero e sbirciavo il sottotitolo “romanzo perfido e paradossale di cafoni e di anarchia” come se avessi tra le mani un oggetto irriducibile alle mie capacità di empatia. Eppure la storia narrata, con un montaggio narrativo serrato e incisivo e uno stile tagliente che recupera aspetti del linguaggio popolare senza eccedere in espressioni dialettali, non dovrebbe essermi estranea. Sono nato a Taranto e mantengo delle vaghe reminescenze di una casa di campagna riarsa dalla calura dove mi venivano offerti fichi rossi e maturi. Ricordo la terra grassa e sbriciolata dal sole, gli olivi contorti e quell’atmosfera sospesa, quasi fuori dal tempo, che ha accompagnato il mio ingresso nella fanciullezza. Forse l’aver vissuto quel periodo come la fase iniziale di una deriva, di un senso di estraneità, di una sensazione di sradicamento che i cambiamenti successivi hanno reso permanente e stabile, ha influito sulla mia percezione.

Ma credo che ci sia dell’altro. Il romanzo di Alemanno propone un quadro spietato e veridico delle condizioni di vita dei “cafoni” meridionali. Non c’è via di uscita, non c’è salvezza, a meno di essere disposti a tutto, proprio a tutto, pur di sfuggire alla condizione di “servo della gleba”, del bracciante agricolo che deve spaccarsi la schiena per dodici ore al giorno in cambio di un salario da fame. Il protagonista del romanzo- Nino- è un ragazzo animato da una volontà di potenza assoluta: non indietreggia davanti a niente, né all’omicidio – quando accoltella il padrone colpevole di voler sedurre sua madre-, né alla delazione, per indirizzare i sospetti dell’omicidio su un amico, né al tradimento e agli intrighi per diventare prima “capo”, poi padrone. Si muove attorniato da una schiera di personaggi mossi esclusivamente dalla difesa del proprio potere personale o da una rassegnata accettazione dello stato di cose esistenti. Zio Peppe, astuto e pericoloso imbroglione che vive in una capanna isolata e a cui la gente del paese si rivolge per risolvere problemi e conflitti personali; il padrone dei terreni che accetta di pagare il funerale del padre di Nino in cambio del possesso di sua madre; i cafoni senz’anima disponibili ad accogliere la propria condizione come un elemento naturale in una società in cui le differenze tra padroni e servi sembrano risalire alla notte dei tempi; il medico che si eccita nel visitare l’ adolescente che diventerà la madre del protagonista.
In mezzo a questo panorama fosco, emerge il desiderio di ribellione incarnato dal movimento anarchico. Ma è un’anarchia anacronistica e vista attraverso le lenti del disincanto e dell’ironia, in un momento storico segnato dall’affermazione del socialismo marxista tra i proletari agricoli e industriali. La discussione che avviene tra l’anarchico Bruttacapa, il professore e i braccianti sembra ricalcare moduli propri dell’inizio del ‘900 e Nino ha subito la netta percezione che siano votati alla sconfitta. E infatti sceglie un’altra strada.

Forse quello che mi ha generato la sensazione di fastidio è proprio questa dimensione di chiusura alla speranza, il ritratto di una società in cui solo assumendo il ruolo del carnefice, del padrone, si può accedere a una vita degna, come se il binomio signore/ servo esaurisse le possibilità intermedie, gli spazi di mediazione tra queste due categorie estreme.

Nel romanzo, il sesso (o, per riprendere le indicazioni della quarta di copertina, le vicende carnali) occupa un ruolo importante. Non si tratta di una sessualità basata sull’incontro, sulla relazione, ma sul dominio. Il sesso è concepito come possesso del corpo altrui a fronte di una condizione di radicale disparità. Diventa, in questo senso, analogo al possesso di merci e di status, un simbolo di potere e di scambio. Esemplare il passaggio in cui zio Peppe induce una postulante a una fellatio, in cambio di un suo intervento. Ancora più tragico il riferimento ai “cafoni” disponibili a immolare le proprie figlie in cambio di una dilazione nei pagamenti.
Ne viene fuori il ritratto di una terra immobile e fondata su stratificazioni sociali ferree. Dove l’anarchia avrebbe un effetto dirompente, se venisse assunta non come ideologia politica, ma come movimento che sovverte la rigidità mortifera dei ruoli e del ciclo di vita.
Se vogliamo muovere un appunto al libro, il quadro proposto appare eccessivamente netto e manicheo, soprattutto in funzione della sua collocazione storica. Ma lo sviluppo della storia narrata è, nel suo procedere e nel suo approdo finale, impeccabile.

Terra Nera, Giuse Alemanno, Stampa Alternativa, 142 pagine, 7 euro.

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