Scrivere solo per se stessi?
Chiariamo: se si intende “scrivere per se stessi”, nel senso di scrivere per la propria gloria, la
propria soddisfazione, il proprio conto in banca, per conquistare la donna o l’uomo amato; se si
intende “scrivere per se stessi”, per sottolineare il piacere che si trae nel processo della scrittura
(anche se poi molti scrittori affermati, con un po’ di civetteria, preferiscono sottolineare la fatica, il
travaglio e, a volte anche la noia dello scrivere), oppure riassaporando la soddisfazione che si è
tratta quando il nostro articolo o il nostro romanzo è stato pubblicato e ci siamo presi la a lungo
attesa rivincita sugli scettici e i facili derisori; ebbene, se questo è il senso dell’espressione “scrivere
per sé stessi, non vi è dubbio: si scrive per se stessi, anzi quasi esclusivamente per se stessi.
Anche nel caso in cui sia stato il nostro analista a chiederci (come fece quello di Zeno Cosini) di
scrivere qualcosa, possiamo dire di scrivere per noi stessi, anche se, però, la presenza di un
committente (particolare, ovviamente, ma pur sempre committente), l’analista, fa già pensare di
avere (o di sperare di avere) almeno un lettore, e quindi di scrivere anche per lui.
Ma se, invece, con l’espressione “scrivere per se stessi”, si intende dire che uno si mette a scrivere,
seriamente, con impegno e puntiglio, con la cadenza e la regolarità che un’attività complessa come
la scrittura richiedono solo per rileggersi, compiacersi di quel che ha fatto e, quindi chiudere
ermeticamente il tutto in un cassetto, beh, ho qualche dubbio.
Certo, ci sono cose che chi scrive non ama poi far vedere, e che si può veramente dire che sono state
scritte per se stessi. Le prove, gli abbozzi, gli esercizi o i tentativi che quasi ogni scrittore deve fare
via via che approfondisce il proprio stile o il proprio progetto. Ma in quel caso non si tratta di
“scrittura” vera e propria, quanto, appunto, di un esercizio, di una sorta di allenamento. Come un
atleta che trascorra molto tempo in palestra o sul campo sportivo a provare, da solo, a farsi il fiato, a
cercare di forzare i propri limiti, ma non preveda un pubblico, bensì solo il confronto con se stesso,
così uno scrittore può passare molto tempo ad allenarsi, e questo allenamento ha un interlocutore
solo: se stesso.
Eppure, ciò nonostante, c’è qualcuno che, riflettendo onestamente su come scrive, dice: “No, io
scrivo per me stesso. Scrivo perché le cose che leggo non mi convincono, e poi perché la storia che
ho in testa è tanto affascinante che voglio scriverla per poi rileggermela da solo, in santa pace. E poi
ci sono stati, nella storia, tanti scrittori che hanno scritto solo per se stessi: pensa a Emily
Dickinson.”
Emily Dickinson: è vero, dall’età di vent’anni in poi si può dire che non sia mai più uscita di casa.
Ma siamo sicuri che scrivesse solo per se stessa? Forse non scriveva con l’intento di pubblicare, ma
le sue poesie le mandava ai critici letterari, per sapere cosa ne pensassero (rimane famosa la sua
lettera al critico Thomas Wenthworth Higgison che esordisce con: “Mr Higginson, Are you too
deeply occupied to say if my Verse is alive?”) Quindi anche Emily Dickinson (che qualcuno
considera una hikkikomori ante litteram!) quando scriveva aveva un rifermento fuori da sé, ed era
un riferimento, tra l’altro, da cui voleva avere riscontro in tempi brevi!
(A proposito, probabilmente la parola hikkikomori richiede una spiegazione. Si chiamano così i
ragazzi giapponesi (si calcola siano almeno un milione), che hanno deciso di troncare ogni
comunicazione diretta con il mondo esterno e vivono confinati in camera loro, parlando con il
mondo esterno solo tramite internet. Ne tratta un libro di Carla Ricci recentemente pubblicato da
Franco Angeli: Hikkikomori. Adolescenti in volontaria reclusione. La volontaria reclusione di questi
ragazzi è evidentemente un segno di disagio e un tentativo di rimanere chiusi in se stessi, rifiutando
il confronto con il mondo esterno che li schiaccia. Non facciamo gli hikkikomori con la scrittura:
mettiamoci in gioco!”)
Scrivere per se stessi, nel senso di volersi rileggere la propria storia da soli, in santa pace, è un
atteggiamento un po’ da hikkikomori, ma sembra anche un segnale di supremo sprezzo nei confronti
del mondo esterno, di cui non consideriamo valido il giudizio. Ma dietro questo sprezzo, siamo
sicuri che non si celi un timore, una debolezza che non si riesce ad affrontare?
Del resto, le motivazioni che portano una persona a scrivere sono state studiate, sia in psicologia sia
in letteratura, e si inseriscono sempre in una dimensione di comunicazione tra chi scrive e chi legge,
tanto che si può ben dire che il processo della scrittura si conclude solo nel momento della lettura da
parte di un “altro da sé”. Persino un diario personale e segreto prevede un lettore "altro da sé" -
magari in un futuro lontano e ipotetico oppure ben presente a chi scrive, anche se procrastinato
all'infinito.
Infine, l’impossibilità di scrivere solo per se stessi è sancita anche da un altro fatto,
importantissimo: non si può crescere come scrittori se non ci si confronta con il lettore. Lo sapeva
Emily Dickinson che chiedeva il giudizio del critico. Ma lo sa chiunque si diletti con qualsiasi
attività: dal modellismo alla cucina, dal puntocroce alla giardinaggio. Non potrai mai migliorare,
crescere se non avrai un interlocutore con cui discutere quel che fai. Certo, puoi anche decidere che
migliorare non ti interessa. Però in questo caso fai un torto. Principalmente a te stesso.
riflessione iniziata attraverso la newsletter di Di Gregorio che ricevo puntualmente:
la riflessione è interessante...