SCRIVERE PER SE STESSI?

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
(Ipanema)
00lunedì 28 settembre 2009 11:29
di Andrea Di Gregorio
www.scuoladiscrittura.com/documenti/Scrivere%20per%20se%20st...


Scrivere solo per se stessi?
Chiariamo: se si intende “scrivere per se stessi”, nel senso di scrivere per la propria gloria, la
propria soddisfazione, il proprio conto in banca, per conquistare la donna o l’uomo amato; se si
intende “scrivere per se stessi”, per sottolineare il piacere che si trae nel processo della scrittura
(anche se poi molti scrittori affermati, con un po’ di civetteria, preferiscono sottolineare la fatica, il
travaglio e, a volte anche la noia dello scrivere), oppure riassaporando la soddisfazione che si è
tratta quando il nostro articolo o il nostro romanzo è stato pubblicato e ci siamo presi la a lungo
attesa rivincita sugli scettici e i facili derisori; ebbene, se questo è il senso dell’espressione “scrivere
per sé stessi, non vi è dubbio: si scrive per se stessi, anzi quasi esclusivamente per se stessi.
Anche nel caso in cui sia stato il nostro analista a chiederci (come fece quello di Zeno Cosini) di
scrivere qualcosa, possiamo dire di scrivere per noi stessi, anche se, però, la presenza di un
committente (particolare, ovviamente, ma pur sempre committente), l’analista, fa già pensare di
avere (o di sperare di avere) almeno un lettore, e quindi di scrivere anche per lui.
Ma se, invece, con l’espressione “scrivere per se stessi”, si intende dire che uno si mette a scrivere,
seriamente, con impegno e puntiglio, con la cadenza e la regolarità che un’attività complessa come
la scrittura richiedono solo per rileggersi, compiacersi di quel che ha fatto e, quindi chiudere
ermeticamente il tutto in un cassetto, beh, ho qualche dubbio.
Certo, ci sono cose che chi scrive non ama poi far vedere, e che si può veramente dire che sono state
scritte per se stessi. Le prove, gli abbozzi, gli esercizi o i tentativi che quasi ogni scrittore deve fare
via via che approfondisce il proprio stile o il proprio progetto. Ma in quel caso non si tratta di
“scrittura” vera e propria, quanto, appunto, di un esercizio, di una sorta di allenamento. Come un
atleta che trascorra molto tempo in palestra o sul campo sportivo a provare, da solo, a farsi il fiato, a
cercare di forzare i propri limiti, ma non preveda un pubblico, bensì solo il confronto con se stesso,
così uno scrittore può passare molto tempo ad allenarsi, e questo allenamento ha un interlocutore
solo: se stesso.
Eppure, ciò nonostante, c’è qualcuno che, riflettendo onestamente su come scrive, dice: “No, io
scrivo per me stesso. Scrivo perché le cose che leggo non mi convincono, e poi perché la storia che
ho in testa è tanto affascinante che voglio scriverla per poi rileggermela da solo, in santa pace. E poi
ci sono stati, nella storia, tanti scrittori che hanno scritto solo per se stessi: pensa a Emily
Dickinson.”
Emily Dickinson: è vero, dall’età di vent’anni in poi si può dire che non sia mai più uscita di casa.
Ma siamo sicuri che scrivesse solo per se stessa? Forse non scriveva con l’intento di pubblicare, ma
le sue poesie le mandava ai critici letterari, per sapere cosa ne pensassero (rimane famosa la sua
lettera al critico Thomas Wenthworth Higgison che esordisce con: “Mr Higginson, Are you too
deeply occupied to say if my Verse is alive?”) Quindi anche Emily Dickinson (che qualcuno
considera una hikkikomori ante litteram!) quando scriveva aveva un rifermento fuori da sé, ed era
un riferimento, tra l’altro, da cui voleva avere riscontro in tempi brevi!
(A proposito, probabilmente la parola hikkikomori richiede una spiegazione. Si chiamano così i
ragazzi giapponesi (si calcola siano almeno un milione), che hanno deciso di troncare ogni
comunicazione diretta con il mondo esterno e vivono confinati in camera loro, parlando con il
mondo esterno solo tramite internet. Ne tratta un libro di Carla Ricci recentemente pubblicato da
Franco Angeli: Hikkikomori. Adolescenti in volontaria reclusione. La volontaria reclusione di questi
ragazzi è evidentemente un segno di disagio e un tentativo di rimanere chiusi in se stessi, rifiutando
il confronto con il mondo esterno che li schiaccia. Non facciamo gli hikkikomori con la scrittura:
mettiamoci in gioco!”)
Scrivere per se stessi, nel senso di volersi rileggere la propria storia da soli, in santa pace, è un
atteggiamento un po’ da hikkikomori, ma sembra anche un segnale di supremo sprezzo nei confronti
del mondo esterno, di cui non consideriamo valido il giudizio. Ma dietro questo sprezzo, siamo
sicuri che non si celi un timore, una debolezza che non si riesce ad affrontare?
Del resto, le motivazioni che portano una persona a scrivere sono state studiate, sia in psicologia sia
in letteratura, e si inseriscono sempre in una dimensione di comunicazione tra chi scrive e chi legge,
tanto che si può ben dire che il processo della scrittura si conclude solo nel momento della lettura da
parte di un “altro da sé”. Persino un diario personale e segreto prevede un lettore "altro da sé" -
magari in un futuro lontano e ipotetico oppure ben presente a chi scrive, anche se procrastinato
all'infinito.
Infine, l’impossibilità di scrivere solo per se stessi è sancita anche da un altro fatto,
importantissimo: non si può crescere come scrittori se non ci si confronta con il lettore. Lo sapeva
Emily Dickinson che chiedeva il giudizio del critico. Ma lo sa chiunque si diletti con qualsiasi
attività: dal modellismo alla cucina, dal puntocroce alla giardinaggio. Non potrai mai migliorare,
crescere se non avrai un interlocutore con cui discutere quel che fai. Certo, puoi anche decidere che
migliorare non ti interessa. Però in questo caso fai un torto. Principalmente a te stesso.




riflessione iniziata attraverso la newsletter di Di Gregorio che ricevo puntualmente:


Una frase delle news scorsa, in cui presentavo il [
www.scuoladiscrittura.com/bacheca.html#sec1 ]corso "SCRIVERE PER LA
PICCOLA EDITORIA" che si terrà a Poggio MIrteto (Rieti)
ha suscitato vivaci reazioni. Scrivevo:

Ovviamente, nessuno scrive per se stesso. Si tratta di una specie di
autoillusione/pietosa bugia in cui alcuni si avvoltolano per evitare di
confrontarsi con l mondo là fuori: un confronto che, evidentemente, li
inquieta e dal quale temono di uscire con le ossa rotte.

Ho ricevuto alcune mail di amici che contestano vivacemente con questa mia
affermazione, sostenendo di scrivere per se stessi e di non farlo affatto
per timore di un confronto esterno, ma per scelta consapevole e convinta.

Nel parlo [
www.scuoladiscrittura.com/documenti/Scrivere%20per%20se%20st...
]qui:

E tu cosa ne pensi?



la riflessione è interessante...
cattleja
00lunedì 28 settembre 2009 11:51
Interessante perchè fa riflettere, ma un pochino oziosa. Credo che nessuno scriva con una pistola puntata alla testa, è chiaro che si scrive per molteplici motivi riconducibili comunque a se stessi, vuoi perchè usi la scrittura come autoanalisi o perchè ti rimette in equilibrio o perchè ti diverte, sempre per noi stessi scriviamo e per comunicare comunque qualcosa all'esterno. Sarebbe come se qualcuno amasse stare ore e ore al telefono per parlare con se stesso...è chiaro che si auspica la presenza di un interlocutore.
Magari forse la domanda è impostata male: in cosa vi soddisfa la scrittura? dando per buono che all'autore serva a qualcosa
Ghidara
00venerdì 2 ottobre 2009 08:59
Sono sempre stata convinta che la scrittura proceda a fasi, la prima delle quali è la scrittura per se stessi.
hai in mente una storia e vuoi raccontarla, soprattutto a te. Raccontarla, scriverla, vedere le parole che escono una in fila all'altra come i punti di un ricamo è la risposta a un'esigenza interiore.
Il bisogno di far leggere i propri scritti nasce dopo, quando capisci di dover condividere il pensiero che hai messo su carta.
Non ho mai creduto molto alle frasi del tipo "voglio pubblicare un romanzo, ne ho scritte già tre pagine".
cattleja
00venerdì 2 ottobre 2009 09:41
Allora: a questo proposito vi dirò che una mia cara amica, leggendo La cantatrice muta, ha detto di aver "sentito la mia voce". Cioè, non ha sentito quella "mano" tipica degli scrittori o di chi si cala nel mondo fittizio della scrittura, ma la mia tipica "voce" di quando parlo o mi confido.
Ora non so se considerarlo un complimento o no.
Ci sono autori inconfondibili, vedi la Ginzburg, di cui sembra di sentire la voce, hanno un tono così sapientemente dimesso e confidenziale che ti sembra di sentirli parlare. Ovvio che dipende anche dal registro narrativo che si usa.
Secondo voi, è giusto avvertire la voce dell'autore in una sua narrazione e se lo è, in che misura è giusto che ci sia?
MLetizia.
00domenica 13 febbraio 2011 15:52
Credo che all'inizio tutti scrivano per se stessi, ma i motivi sono molteplici.
Si scrive per se stessi perchè si ha paura dei giudizi altrui, perchè si prova un reale piacere nell'atto della creazione, perchè è fantastico quando la storia gira nel verso giusto, perchè ci piace tanto scrivere, ecc.
Ricordo di un'intervista ad una cantante molto brava (di cui non ricordo il nome) in cui le si chiedeva che musica ascoltasse. la sua risposta fu che l'unica musica che riusciva ad ascoltare era la sua.
Beh, capisco lo scrittore alle prime armi, ma quando si scrive da un po' ritengo "che lo scrivere per se stessi" non abbia più senso, oppure che nasconda qualcosa.
L'arte è condivisione, l'arte è il regalo che (chi è dotato) fa agli altri. L'arte è aprire le mani e mostrare cosa si cela al loro interno, senza paura, senza remore.
L'arte è confronto, l'arte è sfondare un muro di cemento o accarezzare la seta. L'arte è tutto, ma non è un fatto privato.
LVB
00martedì 15 febbraio 2011 03:31
hikkikomori eh? mmmh mi sa che lo sono un po' anch'io!(e non lo considero un fatto positivo)
mi sono rifiutata per anni di far leggere cose mie a qualcuno, quindi si potrebbe dire che scrivevo per me; ma sapevo che un giorno avrei voluto condividere con qualcuno, semplicemente non me la sentivo al momento. personalmente credo di aver iniziato a scrivere perché non mi sono mai sentita capita, che è un po' triste e da sfigata, ma ci si esprime tramite l'arte, perciò ci dev'essere - anche se non subito - un interlocutore che ascolti/veda/ecc questa nostra espressione!
cattleja
00martedì 15 febbraio 2011 10:14
anche io per anni ho avuto un pudore morboso delle storie che mi venivano in mente. Non era tanto lo stile o la sintassi ad aver paura di mostrare, ma proprio l'idea. Avevo sempre paura che qualcuno mi giudicasse le idee che avevo, che qualcuno osservasse: ma tu sei matta, scombinata, cretina, a pensare queste cose! ma come t'è venuto in mente? ma che t'eri fumata? quella cosa lì mi spaventava più di tutte, come se mi vergognassi a inventare certe situazioni. Per questo ho stentato tanto a uscire allo scoperto, pur scrivendo da tempo. Diciamo che un pochino l'analisi mi ha aiutato a scoprire le infinite possibilità dell'esistere, a prenderne anche le giuste distanze e a non identificarmi con ciò che creavo.
MLetizia.
00martedì 15 febbraio 2011 10:38
Secondo me il punto più elevato lo raggiungiamo quando siamo pronti a "regalare" la nostra opera. Non vuol dire che dobbiamo farlo per forza, ma nel caso lo faremo?
Siete pronti a regalare il frutto del vostro sudore, della vostra fatica, ai lettori?
LVB
00mercoledì 16 febbraio 2011 03:29
andiamoci piano coi regali... i lettori più che accogliere il nostro "regalo", la maggior parte delle volte lo cestinano! [SM=g7405] io piuttosto che di "regalare" parlerei di "dare in pasto" eheheh... le nostre opere sono un po' come dei figli, parti del nostro mondo interiore, e vedercele stroncate può fare molto male, che credo sia un problema non solo mio e di cattleja [SM=g7268]
prendere le distanze e non identificarsi troppo è l'unico modo per proteggerci da eventuali delusioni, che non sono belle ma vanno affrontate, altrimenti diventiamo hikkikomori seriamente [SM=g7301]
MLetizia.
00giovedì 17 febbraio 2011 11:03
Mai fatta una catena di lettura su aNobii?
cattleja
00giovedì 17 febbraio 2011 11:22
Sì, ma onestamente, finora - a parte che il mio romanzo è stato perso, e vabbè - le opere decenti lette saranno state un paio. Gli altri libri, a parte che son quasi tutti di editori a pagamento, sono proprio cose scritte così tanto per avere un nome stampato da qualche parte.
MLetizia.
00giovedì 17 febbraio 2011 11:53
Non sono un'esperta di aNobii.
L'ho conosciuto tre o quattro giorni fa e in quanto scrittrice sono più interessata a mettere in circolo il mio libro che a leggere quelli degli altri.
La cifra irrisoria della spedizione ti dà comunque la certezza di non sprecare 12 o 15 euro per niente. Perchè i pacchi si prendono ovvunque, anche in libreria.
Inoltre se mai decidessi di entrare in una catena, lo farei o consigliata da una persona (che conosco bene) e che ha letto il libro, oppure se l'autore ha pubblicato le prime pagine da qualche parte, e queste mi hanno incuriosito davvero.
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 06:19.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com