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In viaggio con l'artista Carlo Andreoli (ALO)

Ultimo Aggiornamento: 31/01/2011 17:10
31/01/2011 17:10
Post: 2.443
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In viaggio con l'artista Carlo Andreoli (ALO)

carloandreoli.blogspot.com/2010/12/in-viaggio-con-lartista-carlo-andreoli.html?...


Il viaggio inizia una sera sul lungo Po, dentro quelle acque torbide e scure che si direbbero più generose di rifiuti che di storie da raccontare.
Ero dalle parti di Stellata, nella zona del ferrarese. Stavo procedendo lentamente in macchina, c’era nebbia e cominiciava a fare buio. Intravvidi un uomo che camminava lungo l’argine, fermandosi ogni tanto a raccogliere qualcosa.
L’avevo visto con la coda dell’occhio scorrere come un’ombra dal finestrino di sinistra e poi, non so nemmeno perché, l’avevo seguito con lo sguardo dallo specchietto retrovisore: aveva qualcosa in bocca, probabilmente un sigaro, vestiva abiti larghi e scuri e guardava sempre in basso, con un’attenzione particolare. Cosa mai ci poteva essere da guardare con tanto interesse lungo l’argine del Po?

Fermai la macchina appena oltre e scesi a sgranchirmi le gambe e a fumare una sigaretta. Questo fu ciò che dissi a me stesso, ma mi ero fermato per capire che cosa stesse facendo quell’uomo in quel posto desolato.
Sempre fumando e con il cellulare all’orecchio, ma spento, mi avvicinai lentamente, fingendo indifferenza a lui e ai suoi movimenti.
In realtà non ce ne sarebbe stato affatto bisogno in quanto l’uomo era completamente assorbito dalla sua ricerca e non si curava assolutamente di me: stava ammonticchiando sul bordo della strada una collezione di oggetti, cose, non so nemmeno come chiamarli. Distinsi con chiarezza un pezzo di radice contorta, alcune pagine di una rivista porno, una moneta arrugginita, dei rifili di materiale plastico, alcuni sassi. Forse intendeva ripulire l’argine dai rifiuti, uno di quegli ecologisti a oltranza che organizzano battute di raccolte rifuti nei boschi o sulle spiaggie. Però non poteva essere così. L’uomo, che poteva avere una quarantina d’anni, selezionava attentamente il suo raccolto e, a volte, dopo un’attenta analisi, li ributtava nell’argine.
Gli chiesi perché mai stesse raccogliendo quell’accozzaglia di oggetti e così conobbi Carlo Andreoli, ALO per gli amici. Strano diminutivo alquanto inusuale, probabilmente unico. ALO: nome breve, veloce, aereo. Un soffio d’aria, un alito, un respiro, un’onda del mare, un granello di sale. Ci si abitua con fatica a quel nome, difficile proprio perché così facile, ma quando si fissa nella memoria non ne esce più, così come non ne esce la figura del proprietario di quel nome, uomo affatto comune. Solo standogli vicino e osservandolo negli occhi si può cogliere quel travaglio interiore che si porta appresso, quello sconquasso silenzioso di sensazioni che deve sentire e che lui ci restituisce con la sua arte composita. Solo da molto vicino si può sentire quello sbattere d’ali, come un debole fruscio che a tratti pare un piccolo suono di tromba, un alo appunto.


Nato l’8 Maggio 1963 a Bondeno, Carlo Andreoli ha compiuto studi tecnici, ma da sempre ha coltivato una grande passione per l’arte. Alla perenne ricerca del ‘soggetto’ arte, più che dell’oggetto artistico, si infiamma davanti ai maestri riconosciuti come l’amico Guglielmo Mari, Ligabue, Rauschenberg, Caravaggio, Van Gogh, Gaudì, Dalì. Strana lista, vero? Quasi una testimonianza dell’assenza di spazio-tempo in cui vive, che lo tormenta e lo spinge a raccogliere un manifesto da strappare in strada, un frammento di foto perso da chissachi, un giocattolo rubato alle figlie per sporcarlo in un gesto veloce e apparentemente casuale. Come per la serie dei plexiglass esposti a Bondeno alla sua personale del 2005 intitolata 41 Km e Cape Canaveral.
Pittore, fotografo, scultore, ALO macina la materia e la rende arte. Non è facile definire la sua produzione. Sarebbe come tirare delle linee intorno al suo lavoro, quella cornice che lui non mette mai, ma categorie, stili e valutazioni non sono cose per lui. Semplicemente non trovano spazio. È con l’intensità del tratto, è col dolore sotteso a ogni elemento delle sue creazioni che vuole trasmettere l’innocente ma feroce dolore dell’esistenza.
Artista a tutto campo, lavora di notte in una cascina adibita a suo laboratorio con la musica al massimo volume. Fotografie, ritagli di giornale, pellicole adesive di varia natura, stoffe, giocattoli smessi e scarti industriali sparsi ovunque sul tavolaccio di legno e mischiati ai suoi attrezzi: pennarelli, matite, un martello, un trapano, coltelli, spatole, un apribottiglie, ma forse l’ultimo è per la birra.


A Milano in una sera d’inverno, chiacchierando davanti a un piatto di risotto e ad alcune bottiglie di vino, mi racconta “uso colla, nastro adesivo, punteruoli, trapani e saldatori. Il mondo dell’arte ha perso i propri confini fisici e meta-fisici, ed è per questo che le mie opere le inserisco, con pochissimo riguardo, tra fogli di plexiglass: vorrei costruire un ponte tra l’arte e il quotidiano”.
Ed effettivamente, nei suoi plexiglass, l’opera resta come sospesa in una sorta di vuoto, una passerella sospesa sul nulla, a mostrarne l’inderterminatezza e la fragilità. Su questa passerella autore e fruitore possono incontrarsi forse con uno sguardo veloce, anche - perchè no? - d’imbarazzo o di paura, come chi si ritrovi di fronte al se stesso che preferisce dimenticare.
Quando sono molte ormai le bottiglie a rotolare in terra e masticando parole e risotto con quella sua perenne voglia di divorare il mondo mi rivela che “a undici anni fondevo barattoli di plastica e di metallo con l’accendino. Li raccoglievo dove capitava e li bruciavo in cantina per farne delle sculture. Non sapevo bene cosa stessi facendo e perché, ma mi piaceva vedere come la materia si trasformasse; era distruzione e creazione, penetrazione della realtà. C’era la puzza, l’odore di bruciato, anche quello era parte della creazione. Le cose che si deformano, si sciolgono, dicono del proprio dolore. Facevo quello, non c’era intenzione, solo il lasciarsi andare a quello per ridurre a elementi minimi. Poi rimettevo insieme i frammenti e i residui su un tavolo di legno. Non volevo dire niente, cercare niente. Mi piaceva e basta. Mi piaceva l’estetica diversa di quella materia trasformata.
Un amico mi disse che facevo pop art. Non avevo mai sentito nominare la pop art, ma era un bel nome. Mi informai. Scoprii che facevano più o meno quello che facevo io.

Barbara Di Santo e Paola Franzosi, le curatrici della mostra personale Il Mondo Urbano che nel 2008 il Circolo Bertoldt Brecht di Milano gli ha allestito per aver vinto il Concorso “Un frammento di futuro”, hanno scritto di lui: “Una realtà sgrammaticata come quella dei titoli di alcune delle foto di Carlo Andreoli, una realtà dolente, di carne e sangue, dove quasi non esistono sfumature, divorate dalla violenza inconsulta dell´uomo che consuma, dove i colori sono quelli freddi della denuncia o piuttosto della presa di coscienza di questo artista che lascia il proprio segno con una scrittura di meditata imprecisione, con disarmante risolutezza. E´ il mondo degli ultimi, dei piccoli, che Andreoli fissa nei suoi scatti impietosi, restituendo dignità ad un´esistenza dimenticata, inchiodandoci alla nostra coscienza.”


Nella presentazione de Il mondo dentro una vetrina, una serie di scatti fatti in varie metropoli europee, leggiamo: “Il mondo spiato attraverso la superficie trasparente di una vetrina, come se fosse in vendita. In un gioco continuo di riflessioni e rovesciamenti dell’immagine l’obiettivo cattura la realtà composita del dentro e del fuori. Cosa è dentro e cosa è fuori? La bambina che piange sotto all’Empire State building di New York è stata dimenticata dentro a un negozio oppure è l’immagine riflessa di un manifesto pubblicitario? Lenin osserva pensieroso dalla finestra una San Peterburg che non riconosce più come la sua Leningrad oppure è solo un cimelio comunista per turisti?
Il mondo ci rovescia continuamente le sue immagini che ci appaiono reali e incontrovertibili, solide testimonianze di un presente certo e promessa di un futuro obbligato a essere più grande, più bello, più veloce.
E’ sufficiente una lastra di vetro per insinuare in noi il dubbio che tutto quello che crediamo essere il nostro presente non è altro che una riflessione della nostra paura, una parete trasparente dietro la quale crediamo di nasconderci.”


ALO è diventato mio grande amico ed è sempre a lui che ricorro per le copertine dei miei libri. Infatti, da quella volta nei pressi di Stellata, è mio compagno fisso di viaggi in giro per il mondo (sue anche le foto di Bestiario americano, pubblicato sul numero di Settembre 2010 di Fenera) e spesso seguo, a volte letteralmente inseguo, quell’uomo che ha l’abitudine di scomparire improvvisamente alla ricerca non si sa mai esattamente di cosa, ma sempre alla ricerca di qualcosa.
Lo vedo da lontano, una figura scura e ciondolante che cammina, disegnando percorsi irregolari, a volte fermo per minuti intento nell’osservazione del paesaggio, oppure sdraiato in terra a fotografare con la sua amata Lomo, imprecisa e sfocata come lui.
Le sue fughe improvvise sono sempre misteriose e imprevedibili, e spesso mi accorgo che non c’è più quando è già lontano e posso solo intravvederlo come un puntino scuro all’orizzonte, sempre sul punto di tramontare.
Dopo qualche minuto, lo vedo ritornare: il passo sempre lento, le gambe storte che si incontrano alle ginocchia, il toscano fumante in bocca, i capelli spettinati e qualcosa in mano.
Sembra appena uscito da un romanzo di Simenon






http://fabiomusati.blogspot.com/
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