QUESTA STORIA - ALESSANDRO BARICCO

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(Ipanema)
00venerdì 24 marzo 2006 08:15
E' vero. Concordo con chi — uno scrittore emergente di cui non ricordo il nome ma che leggevo sul suo blog qualche tempo fa — dice che dal momento in cui ti metti a scrivere anche tu, la lettura di qualsiasi cosa, libro o articolo che sia, diventa critica, e non più evasione. Sei tutto il tempo a chiederti "perché avrà mai scelto di scrivere questo in questo modo" oppure "questo passaggio non è riuscito bene" eccetera eccetera.
Sono rarissimi i casi in cui il testo ti acchiappa e dimentichi di analizzarlo, ma anzi vieni risucchiato dentro la storia dalla quale esci inebetito ma contento qualche tempo dopo.

Ebbene, la stessa cosa mi è capitata leggendo questo libro. Questa storia di A. Baricco non so dire se mi è piaciuto. Può essere piaciuto un libro di cui hai saltato a pié pari il lungo prologo, hai letto con attenzione e con gusto il primo lungo capitolo (meravigliosi certi passaggi talora lunghissimi, subito interrotti da flash visivi corti e immediati, quasi davvero una scivolata lunga in automobile capelli al vento!) per poi leggere con fastidio la seconda parte e assolutamente non riuscire a finire, l'ultimo capitolo?

Non so dirlo. So solo che io sono assolutamente incapace di lasciare un libro a metà e questo invece non lo finirò.

Cosa mi ha disturbato? I differenti registri stilistici per esempio. Tutto un andirivieni di pomposità, crudezza e velocità, per tornare a una lunga narrazione con descrizioni dettagliate ma noiose nella parte della guerra e della disfatta di Caporetto, per poi passare con rapidità che confonde alla forma diaristico-personale del racconto di Elizaveta, che nella seconda parte scopri non esser veritiero o forse veritiero lo era ma non si capisce, e poi il linguaggio ripetitivo e senza anima della narrazione del fratello di Ultimo, che lo confesso ho saltato a pié pari. Fino ad arrivare alla fine, l'ultimo capitolo nel quale riprende la narrazione in prima persona di Elizaveta (che non è protagonista della storia, ma compare solo molto dopo nel libro e comunque finisce lei di narrare questa storia...) che di nuovo, mi sono rifiutata di leggere. Avevo già perso interesse per la storia di Ultimo molto, molto tempo prima.

Baricco scrive bene. Si sente che sa maneggiare la penna in maniera mirabile. Io da lettrice attenta e con la voglia di emozionarmi, sento che c'è molto dietro questo scrittore. Ma questo libro mi ha spiazzato. Forse non avrei dovuto iniziare la lettura di Baricco con questo libro. Forse non avrei dovuto leggere neppure Senza Sangue, che comprai qualche anno fa, e che bruciai nello spazio di un pomeriggio ma che non mi piacque. Forse dovevo leggere prima di tutti gli altri "Castelli di Rabbia" che comprerò sicuramente quanto prima, perché è buffo, non mi son piaciuti questi due libri, le storie, le scelte stilistiche dello scrittore, ma lo scrittore, e quello che di potente c'è e si intravede nella sua scrittura, sì... e vorrei davvero leggere qualcosa di suo che riesca ad emozionarmi, ad estraniarmi e a fermarmi ad analizzare criticamente le sue parole.

Ecco... Questa storia non mi è piaciuto. Baricco vorrei tanto mi piacesse.
cattleia
00venerdì 24 marzo 2006 09:41
Io di Baricco ho provato a leggere Oceano mare - peraltro regalatomi, non mi viene di spenderci soldi, mi dispiace - e l'ho buttato via con rabbia alla quarta pagina.
Forse lo dovrei riprendere ora, alla luce di nuove conoscenze acquisite a forza di scrivere e di frequentare siti specialistici.
Sapete di cosa mi sono accorta? che imparando trucchi e strategie (ancora sono indietro, lo so, il mio è un cammino lentissimo, io lo paragono a una laurea presa in vent'anni), riesco a leggere anche roba che non mi piace.
Una volta avrei buttato nel cassonetto più cose, ora vedo che riesco ad apprezzare anche scritti che non sono nelle mie corde.
Come la Covito, La bruttina stagionata è un libro scritto benissimo, arguto, ma non mi prende. Forse perchè è scritto in terza persona ma troppo soggettivo, non so, troppo monocorde.
Se dovessi fare un paragone, direi che saper scrivere è come saper guidare, finchè non sai guidare ti fidi di tutti e ti lasci trasportare senza problemi, poi quando impari non ti fidi più di nessuno e hai paura quando guida un altro.
Nello scrivere è la stessa cosa, quando lo sai fare anche un minimo, sei ipercritico con le scritture degli altri.
newat49
00venerdì 24 marzo 2006 13:09
Non ho letto l'ultimo Baricco, ma avevo letto con grande soprpresa e immenso piacere -Oceano Mare-, -Castelli di rabbia-, - la leggenda del pianista (s'intitolava così), un altro che c'entrava con l'oriente e i bachi da seta.
Mi sono piaciuti tutti, li ho sempre divorati, li ho trovati originali, ricchi, coraggiosi, pieni di vita e di idee.
E' uno che ha avuto coraggio e che ha scardinato le 'regolette' dello scrivere bene, e basta questo perchè abbia il mio plauso.
Leggerò questo nuovo e ve ne dirò.
(Ipanema)
00venerdì 24 marzo 2006 13:25
Re:

Scritto da: newat49 24/03/2006 13.09
Non ho letto l'ultimo Baricco, ma avevo letto con grande soprpresa e immenso piacere -Oceano Mare-, -Castelli di rabbia-, - la leggenda del pianista (s'intitolava così), un altro che c'entrava con l'oriente e i bachi da seta.
Mi sono piaciuti tutti, li ho sempre divorati, li ho trovati originali, ricchi, coraggiosi, pieni di vita e di idee.
E' uno che ha avuto coraggio e che ha scardinato le 'regolette' dello scrivere bene, e basta questo perchè abbia il mio plauso.
Leggerò questo nuovo e ve ne dirò.



ma infatti la cosa strana è stata nel leggerlo che la mano sapiente dello scrittore di talento si percepisce anche in questo libro. E' il registro narrativo che non mi è piaciuto. La storia era particolare, e sicuramente molto interessante. Nel secondo capitolo, pur con descrizioni scarne i personaggi escon fuori, si sentono, si percepiscono i silenzi, le occhiate i sentimenti che li contaddistinguono. Sa dare pennellate sapienti con pochissime parole fotografa luoghi, persone, cose.

Poi tutto cambia. Cambia e a tratti annoia. E torna a cambiare di nuovo. E non appassiona, non commuove più. Insomma, forse ha esagerato troppo con il "rompere gli schemi" forse sono io che non sono abituata, che non amo questo particolare modo di comporre... fatto sta che non mi ha appassionato. Ma ripeto, il talento cìè, si sente... ed è metitatissimo. Anzi, sono convinta che i detrattori di Baricco siano assolutamente fuori registro. Uno scrittore così non poteva restare al buio in uno degli scaffali che raccolgono i manoscritti degli aspiranti...

Eppure...
Adesso mi faccio "Castelli di rabbia" e "Oceano e mare". "Novecento" mi pare si chiamasse quello della "Leggenda del pianista sull'oceano" o qualcosa di simile da cui è stato tratto il film. Mi farò anche quello.

E saprò dire.
newat49
00venerdì 24 marzo 2006 14:06
Brava, Novecento. Sì, fatti quello se vuoi rifarti la bocca con Baricco: breve, intenso e magico, senza ricercatezze stilistiche.
Riguardo allo sperimentare io penso che è quello che contraddistingue un grande scrittore da uno dei tanti.
Uno dei tanti riesce a scrivere bene un libro, ha un discreto successo, e continua a riscrivere per tutta la vita lo stesso libro: Agatha Cristhie, il Simenon di Maigret, Banana Yoshimoto, Isabelle Allende. Kundera...e ho usato apposta esempi di autori famosissimi e stimatissimi. Sanno di non sbagliare continuando a raccontare sempre la stessa storia. Anche Camilleri, in fondo: bravissimo am sempre uguale a se stesso.
Il grande scrittore ricomincia ogni volta da capo, si rimette sempre in discussione, ti dà quello che non ti aspetti, ti toglie quello che pretenderesti da lui (l'ha già detto, perchè dovrebbe ripeterlo?). Forse è la diffrenza che c'è tra mestiere e arte.
Borges, Kafka, Calvino.
esteriade
00venerdì 24 marzo 2006 14:17
Novecento però è un monologo teatrale!
la differenza c'è e si sente (è l'unico testo di Baricco che ho letto con piacere e per intero)
(Ipanema)
00venerdì 24 marzo 2006 16:01
io ADORO i monologhi teatrali...
non ve l'avevo detto?

sì, certo, son pienamente d'accordo con te, Fabio...
hai centrato il punto.
'nzomma, anche Baricco è un duro e puro eh?uhauhauha... :D
esteriade
00venerdì 24 marzo 2006 16:16
Io in realtà sospetto proprio il contrario...
La sensazione che ho avuto ogni volta che ho approcciato testi di Baricco (e sì che in casa ce li ho praticamente tutti...anche se non li ho acquistati io), è che la sua scrittura (non parlo di questioni formali) sia una scrittura estremamente schematica, "a tavolino", iper strutturata. è tutto pianificato.
Questa la mia impressione, questo il motivo per il quale non riesco a leggerne mai più di una manciata di pagine.
mi fa lo stesso effetto di certi quadri, bellini, con colori vividi ed estrememente netti: per quanto suggestiva possa essere di per sé l'immagine non mi trasmette emozioni.

Novecento è l'eccezione.



cattleia
00venerdì 24 marzo 2006 16:25
Perchè Novecento è scritto in modo classico.
In fondo Novecento attesta che Baricco sa scrivere.
Un po' come i primi quadri di Picasso, com'erano? in stile classico, tanto per dimostrare che sapeva dipingere e non bluffava.
Anch'io sono riuscita a leggere di lui solo Novecento.
(Ipanema)
00domenica 26 marzo 2006 12:36
E' più forte di me... se non finisco un libro mi sento in colpa fino allo spasimo. E allora ho letto la fine del libro, l'epilogo. Ha confermato le mie impressioni, non ha ribaltato considerevolmente il giudizio che ho dato prima. In sostanza non mi è piaciuto. Ma mi ha incuriosito al punto che leggerò Baricco in tutta la sua produzione letteraria. Baricco ha un grande talento, e di questo ho percepito la sapienza nell'uso della parola in un certo modo, nella seprimentazione e nella variazione del ritmo e dei registri stilistici. Ma non mi ha convinto in questo libro. Ecco tutto. Bello e struggente il momento di pathos quando la lei protagonista si ricongiunge con il lui protagonista mediante un lungo giro in auto sul circuito cercato e trovato e che era in fondo il grande sogno e la traccia di tutta la vita del protagonista. La descrizione di quelle sensazioni mescolate con la vita stessa a ritroso del lui protagonista è molto bella e intensa pur sempre con una semplicità descrittiva disarmante.

Ma poi di nuovo la neutralità di impressioni, al finale vero e proprio.

Insomma, Questa storia mi è piaciuta a tratti ma sostanzialmente nella sua interezza non mi ha conquistato.

E' stato interessante però analizzare la storia e il modo in cui è narrata. In fondo, non è una grande storia con grandi momenti di azione alternati a pause di riflessione. E' una storia. Alla quale poi sono stati aggiunti grandi ricerche anche storiche su momenti e ambienti specifici, e una grande attenzione per i particolari di oggetti e situazioni.

Interessante è stato il capire che lo scrittore può scrivere come vuole, a lui tutto è permesso, non esistono manuali che impongano regole e strutture.

[Modificato da (Ipanema) 24/05/2006 22.14]

(Ipanema)
00domenica 23 aprile 2006 22:19
Castelli di rabbia
L'ho letto perché davvero volevo vedere dove andava a parare. L'ho letto strabuzzando gli occhi chiedendomi cosa ci fosse di così bello da leggere.
L'ho letto e non l'ho capito.

Personaggi strampalati, storie sfilacciate che non si riallacciano alla fine. Assurdo e neppure nemmeno - a mio avviso - scritto poi così bene...

Decisamente, dopo tre Baricco, posso dire che no, non è il mio autore.

Boh...

chi lo ha letto potrebbe spiegarmelo? Io sinceramente ho capito solo che a un certo punto ammazzano il figlio del protagonista. Ma come vada a finire, quale sia la storia non ho saputo spiegare... e alla fine, chi è la donna che si vende per il biglietto della nave per l'America?
(Ipanema)
00venerdì 12 maggio 2006 15:07

LA LETTURA

Viaggio alla ricerca
dei nuovi barbari
di ALESSANDRO BARICCO


Illustrazione di Gipi
NON sembra, ma questo è un libro. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto scriverne uno, a puntate, sul giornale, in mezzo alle frattaglie di mondo che quotidianamente passano da lì. Mi attirava la fragilità della cosa: è come scrivere allo scoperto, in piedi su un torrione, tutti che ti guardano e il vento che tira, tutti che passano, pieni di cose da fare. E tu lì senza poter correggere, tornare indietro, ridisegnare la scaletta. Come viene, viene. E, il giorno dopo, involtolare insalata, o diventare il cappello di un imbianchino. Ammesso che se li facciano ancora, i cappelli, col giornale - come barchette sul litorale delle loro facce.

Ogni tanto, e mica solo nel lavoro, ci si va a cercare una qualche indigenza. Ed è probabilmente un modo di recuperare una qualche autenticità.

Comunque non vorrei creare false aspettative, quindi chiarisco che non è un romanzo. Il romanzo a puntate, quello non mi attira per niente. Per cui sarà un saggio, nel senso letterale del termine, cioè un tentativo: di pensare: scrivendo. Ci sono alcune cose che mi va di capire, a proposito di quel che sta succedendo qui intorno. Per "qui intorno" intendo la sottilissima porzione di mondo in cui mi muovo io: persone che hanno studiato, persone che stanno studiando, narratori, gente di spettacolo, intellettuali, cose così. Un mondaccio, per molti versi, ma alla fine è lì che le idee pascolano, ed è lì che sono stato seminato.

Dal resto del mondo ho perso contatto un sacco di tempo fa, e non è bello, ma è vero. Si fa un sacco di fatica a capire la propria zolla di terra, non resta molto per capire il resto del campo.

Ma forse in ogni zolla, a saperla leggere, c'è il campo intero.

E comunque, dicevo che c'è qualcosa, lì, che mi andrebbe di capire. Prima pensavo di intitolarlo così, il libro: La mutazione. Solo che non mi è riuscito di trovare nessuno a cui, anche solo vagamente, piacesse. Pazienza. Però era un titolo puntuale. Voglio dire che quella è precisamente la cosa che mi piacerebbe capire: in cosa consiste la mutazione che vedo intorno a me.

Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell'aria, un'incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedo menti raffinate scrutare l'arrivo dell'invasione con gli occhi fissi nell'orizzonte della televisione.

Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato
dietro il passaggio di un'orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si
scrive o immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura né storia.

I barbari, eccoli qua.

Ora: nel mio mondo scarseggia l'onestà intellettuale, ma non l'intelligenza.

Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c'è. Ma quel che c'è, io non riesco a guardarlo con quegli occhi lì. Qualcosa non mi torna.

Potrebbe essere, me ne rendo conto, il normale duello fra generazioni, i vecchi che resistono all'invasione dei più giovani, il potere costituito che difende le sue posizioni accusando le forze emergenti di barbarie,
e tutte quelle cose che sono sempre successe e abbiamo visto mille volte.

Ma questa volta sembra diverso. E' così profondo, il duello, da sembrare diverso. Di solito si lotta per controllare i nodi strategici della mappa. Ma qui, più radicalmente, sembra che gli aggressori facciano qualcosa di molto più profondo: stanno cambiando
la mappa. Forse l'hanno perfino già cambiata. Dovette succedere così negli anni benedetti in cui, per esempio, nacque l'illuminismo, o nei giorni in cui il mondo tutto si scoprì, d'improvviso, romantico. Non erano spostamenti di truppe, e nemmeno figli che uccidevano padri. Erano dei mutanti, che sostituivano un paesaggio a un altro e lì fondavano il loro habitat.

Forse è un momento di quelli. E quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro alle orecchie e ha deciso di vivere sott'acqua. Ovvio che da fuori, noi, coi nostri polmoncini, ne caviamo l'impressione di un'apocalisse imminente. Dove quelli respirano, noi moriamo. E quando vediamo i nostri figli guardare vogliosi l'acqua, temiamo per loro, e ciecamente ci scagliamo contro ciò che solamente riusciamo a vedere, cioè l'ombra di un'orda barbarica in arrivo. Intanto, i suddetti figli, sotto le nostre ali, già respirano da schifo, grattandosi dietro le orecchie, come se ci fosse qualcosa, là, da liberare.

È lì che mi vien voglia di capire. Non so, forse c'entra anche questa curiosa asma che mi prende sempre più spesso, e la strana inclinazione a nuotare a lungo sott'acqua, fino a quando proprio non trovo in me branchie pronte a salvarmi.

Comunque. Mi piacerebbe guardare quelle branchie da vicino. E studiare l'animale che si sta ritirando dalla terra, e sta diventando pesce. Vorrei spiare la mutazione, non per spiegarne l'origine (questo è fuori portata) ma per riuscire anche lontanamente a disegnarla. Come un naturalista d'altri tempi che disegna sul taccuino la nuova specie scoperta nell'isolotto australiano. Oggi ho aperto il taccuino.

Non ci capite niente? Ovvio, il libro non è ancora nemmeno iniziato.

È un viaggio per viandanti pazienti, un libro.

Spesso i libri iniziano con un rito che io amo molto, e che consiste nello scegliere un'epigrafe. È quel tipo di
frasetta o citazione che si mette nella prima pagina, giusto dopo il titolo e l'eventuale dedica, e che serve da viatico, da benedizione. Per dire, ecco l'epigrafe di un libro di Paul Auster:

"L'uomo non ha una sola e identica vita; ne ha molte giustapposte, ed è la sua miseria". (Chateaubriand)

Spesso suonano così: qualsiasi boiata dicano, tu ci credi. Apodittiche, per dirla nella lingua di quelli che respirano con i polmoni.

A me piacciono quelle che tracciano i bordi del campo. Cioè ti fanno capire più o meno in che campo quel libro va a giocare. Il grande Melville, quando si trattò
di scegliere l'epigrafe per Moby Dick, si lasciò un po' prendere la mano, e finì per selezionare 40 citazioni. Ecco la prima:

"E Dio creò le grandi balene." (Genesi)

Ed ecco l'ultima:
"Oh la Balenda grande e fiera, / tra il vento e la bufera, / oh il gigante che sadominare l'infinito mare!" / (Canzone baleniera).

Credo che fosse un modo di far capire che in quel libro ci sarebbe stato il mondo intero, da Dio alle scoregge dei marinai di Nantucket. O quanto meno, questo era il programmino di Melville.

Anima candida!, direbbe Vonnegut, con il punto esclamativo.

Così, per questo libro, io avrei scelto quattro epigrafi. Giusto per segnare i bordi del campo da gioco. Ecco la prima: viene da un bellissimo libro uscito da poco
in Italia (ed. il Mulino). L'ha scritto Wolfgang Schivelbush ed è intitolato La cultura dei vinti. (Sono titoli a cui, essendo tifoso del Toro, non posso resistere). Ecco cosa dice a un certo punto:

"Il timore di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di palazzi in sfacelo nei quali pascolano le greggi sono ricorrenti nella letteratura della decadenza
dall'antichità fino ai giorni nostri".

Copiate e mettete da parte.

Seconda epigrafe: la seconda epigrafe la trovate nella prossima puntata.

Che vento che tira, su 'sto torrione.
(1. continua)

ibarbari@repubblica.it




Ecco perché io mi incaponisco su Baricco. Ecco quando mi piace Baricco. Quando scrive a braccio, senza il tempo di correggere e senza scalette, come dice lui. Quando dentro a ciò che scrive c'è la sua anima e non il marketing o la ricerca, l'esercizio di stile.

Ecco perché so che Baricco è un Grande. Ma tutti i libri che ho letto mi hanno fatto imbufalire. Adesso leggerò Novecento. Tutti dicono che è un gioiellino. Andrò a cercarlo e darò una nuova chance a Baricco. Perché so che se scocca la scintilla, finisco per innamorarmene. Ma per il momento solo qualche sparuto crepitìo ogni tanto, quando leggo i suoi "sfoghi" come questo... (e il più bello è quello sull'11 settembre... "Cosa stavamo facendo..." da accapponare la pelle... se lo trovo, lo posto)

La questione dei Nuovi Barbari è interessantissima. Non ho capito, ha messo una e-mail per permettere ai lettori di rispondergli?

Uhmmm
(Ipanema)
00sabato 13 maggio 2006 12:19
I NUOVI BARBARI, CONTINUA
La seconda epigrafe viene da lontano


Andò proprio così. E quando sarò arrivato alla trentesima puntata di questo libro mi riuscirà più facile spiegarvi come sia importante questo aneddoto. Sarà fra mesi, immagino, ma allora non avrete difficoltà a capire questa frase: era anche una questione di come andavano vestiti. Promesso.

Comunque. Non era questo che volevo dire. Ero alla seconda epigrafe. Dunque, apparve la Nona di Beethoven ed è curioso capire coma la presero. La gente, i critici, tutti. Era esattamente uno di quei momenti in cui alcuni umani si scoprono le branchie dietro alle orecchie e iniziano timidamente a pensare che loro starebbero molto meglio in acqua. Erano sulla soglia di una mutazione micidiale (l'abbiamo poi chiamata: romanticismo. Non ne siamo ancora usciti adesso). Quindi è molto importante andare a vedere cosa dissero e pensarono in quel momento. E allora ecco cosa scrisse un critico londinese, l'anno dopo, quando potè finalmente leggere e sentire la Nona. Ci tengo a dire che non era un fesso, e scriveva per una rivista autorevole che si chiamava The Quarterly Musical Magazine and Review. E questo fu ciò che scrisse, e che io metto qui, come seconda epigrafe:

"Eleganza, purezza e misura, che erano i principi della nostra arte, si sono gradualmente arresi al nuovo stile, frivolo e affettato, che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato. Cervelli che, per educazione e abitudine, non riescono a pensare a qualcosa d'altro che i vestiti, la moda, il gossip, la lettura di romanzi e la dissipazione morale, fanno fatica a provare i piaceri, più elaborati e meno febbrili, della scienza e dell'arte. Beethoven scrive per quei cervelli, e in questo pare che abbia un certo successo, se devo credere agli elogi che, da ogni parte, sento fiorire per questo suo ultimo lavoro".
Voilà.

Quel che mi fa sorridere è che la Nona, ai giorni nostri, è esattamente uno dei baluardi più alti e rocciosi di quella cittadella che sta per essere assaltata dai barbari. Quella musica è diventata bandiera, inno, fortificazione suprema. È la nostra civiltà. Beh, ho una notizia da dare. C'è stato un tempo in cui la Nona era la bandiera dei barbari! Lei e i lettori di romanzi: tutti barbari! Quando li vedevano arrivare all'orizzonte, correvano a nascondere le figlie e i gioielli! Sono colpi. (Così, per inciso: come si è arrivati a pensare che quelli che NON leggono romanzi sono i barbari?)

A proposito di Nona, sentite questa. Perché i cd sono grandi così e contengono quella certa quantità di minuti di musica? In fondo, quando li hanno inventati potevano farli un po' più grandi, o un po' più piccoli, perché proprio quella misura lì? Risposta: alla Philips, nel 1982, quando si trattò di decidere, pensarono questa: ci deve stare dentro l'intera Nona Sinfonia di Beethoven. Ai tempi ci voleva un supporto di 12 cm per fare una cosa del genere. Così nacque il cd. Ancora adesso un disco di Madonna, per dire, si allinea alla durata di quella Sinfonia.

Curioso, no? Ma è vero? Non lo so. L'ho letto su una rivista francese che si intitola L'echo des savanes, e una pagina su tre ci trovi donne nude e fumetti. Quando sei in treno, in mezzo ala gente, leggerla è tutta una fatica, soprattutto se sei cresciuto da cattolico. Nel suo campo è comunque una rivista autorevole, per quanto mi sfugga, in effetti, quale sia il suo campo. In ogni caso il punto che mi interessa è: l'aneddoto della Philips, anche se non è vero, dice una cosa perfettamente vera, cioè il carattere totemico assoluto della Nona. E lo dice con una sintesi che è non ho mai trovato in decine di libri senza donne nude. Questo mi piace, e c'entra con questo libro. Cos'è questa nuova forma di verità, probabilmente immaginaria ma così esatta da rendere inutile qualsiasi verifica? E perché proprio là, in mezzo a tette e culi? È una cosa a cui intendo dedicare il quarto capitolo di questo libro. Mi resta da capire bene di cosa parleranno i primi tre.

Tranquilli. Faccio finta. Un piano ce l'ho. Ad esempio so che andrò a scrivere l'ultimo capitolo del libro sulla Grande Muraglia cinese.
Va be'. Passiamo alla terza epigrafe.
(2- continua)

(13 maggio 2006)
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